La detenzione degli animali domestici all’interno dei singoli appartamenti può essere vietata dal regolamento di condominio? Entro quali limiti il divieto contenuto nel regolamento era legittimo prima dell’entrata in vigore della legge di riforma del condominio?

Premessa

Per una buona convivenza in condominio è necessario prendere ogni precauzione per non causare disturbo. In quasi tutti i condomini vi è la presenza di animali domestici all’interno dei singoli appartamenti e, spesso, i condomini si chiedono entro quali limiti il diritto individuale di tenere presso di sé animali domestici possa essere limitato. Nel corso degli ultimi decenni è mutata la sensibilità verso gli animali affermandosi un vero e proprio diritto del singolo a tenere con sé gli animali quale manifestazione ed espressione della propria personalità che si concreta nel rapporto di convivenza, di ospitalità, di affectio con l’animale ove rimanga entro limiti di normalità e non arrechi alcuna lesione all’igiene ambientale e alla tranquillità del vicinato. Il diritto alla convivenza dell’uomo con l’animale trova un riconoscimento legislativo nell’art. 1 della legge 14 agosto 1991, n. 281, che in tema di trattamento degli animali domestici stabilisce: «Lo stato promuove e disciplina la tutela degli animali di affezione, condanna gli atti di crudeltà contro di essi, i maltrattamenti e il loro abbandono, al fine di favorire la corretta convivenza tra uomo e animale e di tutelare la salute pubblica e l’ambiente». L’art. 5 della stessa legge prevede sanzioni amministrative a carico di chi abbandona cani, gatti o qualsiasi altro animale custodito nella propria abitazione. La mutata coscienza del Legislatore nei confronti degli animali ha portato alla modifica dell’art. 727 c.p., che tra le altre ipotesi penalmente sanzionate prevede il comportamento di chi detenga animali in condizioni incompatibili con la loro natura. In questo contesto di cambiamento e di adattamento della normativa alla mutata percezione degli animali anche nella vita condominiale  si inserisce la modifica apportata dal legislatore, in sede di riforma del condominio intervenuta con la legge 11 dicembre 2012, n. 220, in vigore dal 18 giugno 2013, che all’ultimo comma dell’art. 1138 c.c. sancisce l’illegittimità delle norme del regolamento che prevedono  il divieto di possedere o detenere animali domestici.

Animali domestici in condominio

Il principio che vige nel condominio, per ciò che concerne la detenzione di animali domestici nei singoli appartamenti, è quello della libertà per ogni condomino di poter disporre e godere come meglio crede della propria proprietà esclusiva. Se non che, da un lato, la detenzione degli animali domestici rientra nelle facoltà di godimento del proprietario dell’immobile e con la riforma del condominio ormai ne è stata sancita la legittimità, dall’altro, prima dell’intervento del legislatore alcuni problemi erano sorti sotto il profilo delle limitazioni convenzionali.

Divieto di detenzione e regolamento condominiale

Una prima questione che si è posta, prima della riforma del condominio che espressamente all’ultimo comma dell’art. 1138 c.c. stabilisce: «le  norme del regolamento di condominio non possono vietare di possedere o detenere animali domestici», è se un regolamento condominiale contenente il divieto di detenere animali nelle singole unità immobiliari potesse limitare il diritto del singolo e, in caso di risposta affermativa, entro quali limiti. Poiché il divieto che contiene una tale limitazione riduce la naturale esplicazione del diritto di proprietà, preliminarmente è necessario verificare se i limiti ai diritti o ai poteri del condomino sulla propria proprietà esclusiva siano contenuti in un regolamento condominiale contrattuale o meno. In relazione alla fonte il regolamento assembleare, che è quello tipico adottato in sede di assemblea condominiale mediante delibera approvata con la maggioranza prevista dall’art. 1136, comma 2, c.c., si distingue dal regolamento contrattuale, precostituito dal venditore e, successivamente, accettato di volta in volta, dagli acquirenti nei rispettivi atti di acquisto, e dal regolamento convenzionale approvato concordemente da tutti i condomini. La dottrina, nel considerare le principali differenze tra regolamento condominiale assembleare e regolamento contrattuale, è schierata con la giurisprudenza ritenendo che la principale differenza non risiede nelle modalità di formazione degli stessi, bensì nel contenuto delle clausole di cui siano composti. In particolare hanno natura contrattuale e necessitano del consenso dei condomini le clausole che incidono sui diritti immobiliari dei medesimi, sulle loro proprietà esclusive o sulle parti comuni o ancora che attribuiscono ad alcuni condomini diritti maggiori di quelli degli altri condomini. Hanno natura regolamentare, invece, le clausole che si limitano a disciplinare l’uso dei beni comuni e in generale l’organizzazione e il funzionamento dei servizi condominiali. In presenza di un regolamento di natura contrattuale la giurisprudenza di legittimità è granitica nel ritenere che la compressione di facoltà normalmente inerenti le proprietà esclusive dei condomini deve risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro non suscettibile di dar luogo ad incertezze. I divieti ed i limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini, posti con il regolamento predisposto dall’originario proprietario ed accettato con l’atto di acquisto, devono risultare da una volontà chiaramente ed espressamente manifestata nell’atto o da una volontà dallo stesso desumibile in modo non equivoco e possono essere formulati sia mediante elencazione delle attività vietate (in tal caso, per stabilire se una determinata attività sia vietata o limitata basterà verificare se la stessa sia inclusa nell’elenco) sia mediante il riferimento a pregiudizi che si ha intenzione di evitare.

La giurisprudenza, chiamata nella prassi a pronunciarsi sulla legittimità delle clausole del regolamento condominiale che impongono limitazioni ai poteri e alle facoltà spettanti ai condomini sulle parti di loro esclusiva proprietà, ha elaborato nel tempo alcuni principi proprio con riferimento alla disposizione contenente il divieto di detenzione di animali negli spazi privati, distinguendo l’ipotesi in cui la clausola è contenuta nel regolamento assembleare da quella contenuta nel regolamento contrattuale.

L’orientamento giurisprudenziale prevalente, anche prima della riforma del condominio, nega al regolamento condominiale la possibilità di imporre validamente il divieto di tenere animali ai singoli condomini e a maggior ragione se detti animali non provocano particolari molestie ai vicini. Secondo questa posizione il regolamento condominiale quando non ha natura contrattuale e non è stato approvato dalla totalità dei partecipanti al condominio è inidoneo a menomare i diritti dei singoli condomini sulle porzioni di fabbricato di loro esclusiva proprietà, in ragione della sua natura non contrattuale e del fatto di non essere stato approvato dalla totalità dei condomini. Il regolamento condominiale non contrattuale in astratto non è suscettibile di vincolare la generalità dei comunisti con riferimento a clausole eccedenti i limiti del rispetto dei diritti individuali di ciascun condomino imposto dall’art. 1138, comma 4, c.c. Il divieto implicante la menomazione dei diritti dei singoli condomini sulle porzioni di edificio in loro proprietà esclusiva può essere adottato soltanto con un regolamento di natura contrattuale oppure approvato dalla totalità dei condomini, e non con un atto votato solo dalla maggioranza di costoro. Gli ordinari regolamenti condominiali che a mente dell’art. 1138, comma 4, c.c. risultano approvati dall’assemblea dei condomini con il voto non della totalità ma solo dalla maggioranza dei condomini, non possono contenere clausole implicanti menomazioni delle facoltà comprese nel diritto di proprietà dei condomini sulle porzioni del fabbricato comune a essi individualmente appartenenti in esclusiva. Fra le clausole in questione devono ritenersi incluse quelli recanti il divieto di tenere negli appartamenti i comuni animali domestici, posto che tali clausole, nella realtà, incidono, limitandola, sulla facoltà di godimento degli appartamenti compresa nel contenuto del diritto di proprietà.

Tale clausola non può produrre effetti neppure con riguardo a quei condomini che concorsero con il loro voto favorevole alla relativa approvazione. In tal caso le manifestazioni di voto, per non essere confluite nella formazione di un atto collettivo valido ed efficace, altro non possono essere considerate che atti unilaterali atipici, di per sé, inidonei a mente, dell’art. 1987 c.c., a vincolare i loro autori nella mancanza di una specifica disposizione legislativa che ne preveda l’obbligatorietà.

Tuttavia anche in presenza di una clausola limitativa contenuta in un regolamento contrattuale perché si possa incorrere in una violazione è necessario che venga accertato il turbamento della quiete e dell’igiene degli altri condomini. La giurisprudenza di merito, difatti, ha sostenuto che il semplice possesso di cani o altri animali non è sufficiente a far incorrere i condomini nella violazione del regolamento condominiale che vieti di detenere animali in grado di turbare la quiete o l’igiene dei residenti, sostenendo la necessità di un effettivo accertamento del pregiudizio arrecato ai condomini sotto questi profili.

L’evoluzione percorsa dalla giurisprudenza di legittimità e di merito in materia è orientata a configurare un diritto fondamentale del cittadino alla convivenza con l’animale, cosicché in caso di conflitto tra questo diritto e il divieto di tenere negli appartamenti gli animali domestici contenuto in un regolamento condominiale prevale il primo. La Cassazione ha sancito l’inefficacia delle norme del regolamento condominiale inidonee a comprimere le facoltà del proprietario di disporre in modo sovrano sulla propria proprietà esclusiva. In questa prospettiva si pone la sentenza 26 marzo 2008, n. 7856, con cui la Corte, pur riconoscendo che i proprietari di un cane non avevano rispettato il regolamento condominiale, non li ha condannati al risarcimento dei danni. In questa singolare sentenza la Cassazione ha riconosciuto che i cani in appartamento possono abbaiare ma i proprietari debbono adottare delle cautele anche per prevenire le cause di eccitazione notturna dei loro amici. La Corte ha così intimato a una giovane coppia proprietaria di un cane di fare tutto il possibile per «prevenire le possibili cause di agitazione ed eccitazione dell’animale, soprattutto nelle ore notturne» e ha rilevato, peraltro, che risulta impossibile «coartare la natura dell’animale al punto da impedirgli del tutto di abbaiare», ma la prevenzione resta comunque un dovere.

L’ultimo comma dell’articolo 1138 c.c., introdotto dalla legge di riforma del 2012, ha recepito i principi che la giurisprudenza aveva già elaborato sul tema e non può dubitarsi che la previsione secondo cui la presenza di animali negli appartamenti non può essere impedita e vietata dalle clausole del regolamento trova applicazione per il regolamento di natura assembleare, con la conseguenza che è nulla la disposizione contenente un tale divieto. Quanto all’estensione della suddetta previsione al regolamento di natura contrattuale la giurisprudenza di merito successiva all’introduzione della norma non è pacifica al riguardo e ad oggi non si rinvengono interventi di legittimità ad avallo dell’interpretazione estensiva.

Immissioni e parametri di tollerabilità

La detenzione di un animale, sebbene non possa essere più vietata neanche con una norma del regolamento di condomino, può integrare in astratto la fattispecie dell’art. 844 c.c. Il problema delle immissioni rumorose è uno fra i più avvertiti nell’attuale società poiché oltre a pregiudicare la salute umana ne pregiudica la qualità della vita condizionandone spesso l’intera esistenza.

La legge stabilisce il parametro della tollerabilità quale limite oltre il quale si riconosce al vicino il diritto di impedire le immissioni moleste. Qualsiasi propagazione proveniente dall’altrui proprietà è ritenuta dall’ordinamento lecita solo se rientra nella normale tollerabilità alla luce di un accertamento che, in concreto, il giudice dovrà compiere tenendo conto di tutte le circostanze di fatto. La giurisprudenza ha dato anche una definizione del “rumore” affermando che lo stesso può consistere in «qualunque stimolo sonoro non gradito all’orecchio umano, che per le sue caratteristiche di intensità e durata può divenire patogeno per l’individuo». Per calcolare l’intollerabilità delle immissioni sono stati utilizzati metodi diversi. Secondo il criterio relativo o comparativo la fonte sonora contestata viene raffrontata con il valore medio del rumore di fondo (valore quest’ultimo da identificare con il complesso di rumori di origine varia, continui e caratteristici del luogo, sui quali si innestano di volta in volta). Con il criterio assoluto, invece, per individuare la rumorosità ammissibile in una determinata zona viene fissato un limite rigido di tollerabilità superato il quale i rumori sono ritenuti inquinanti.

Tutte le volte che la presenza di animali integri l’ipotesi di immissione molesta e intollerabile che rechi pregiudizio ai condomini sotto forma di disturbo alla quiete, il condominio può adire l’autorità giudiziaria per la cessazione dell’immissione intollerabile. Le questioni che ruotano intorno ai rumori cosiddetti “intollerabili” o molesti che disturbano la quiete spesso sono state affrontate anche in sede penale sotto il profilo della punibilità dei comportamenti rumorosi che disturbano le occupazioni o il riposo.

La tutela penale

La tutela penale contro il disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone è contenuta nell’art. 659 c.p. che disciplina due ipotesi contravvenzionali. Il primo comma del citato articolo espressamente punisce «chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone». Perché sia integrata la contravvenzione di cui al primo comma dell’art. 659 c.p. occorre che i rumori investano la generalità delle persone e che inoltre sia superata la soglia della normale tollerabilità. È necessaria la prova del superamento dei limiti della normale tollerabilità di emissioni sonore e della percettibilità delle emissioni stesse da parte di un numero illimitato di persone, a prescindere dal fatto che in concreto tali persone siano state effettivamente disturbate. La pubblica quiete, definita come elemento essenziale di ogni ordinamento civile, nel quale la libertà individuale non può essere illimitata e devono venir garantite le condizioni necessarie perché la convivenza si svolga in modo soddisfacente per la popolazione, è l’interesse direttamente protetto dalla norma in esame, e la sua offesa si concreta nel disturbo arrecato alle persone, considerate non individualmente ma come collettività. La concreta determinazione del concetto di disturbo è stata lasciata dal Legislatore alla discrezionalità del giudice. L’orientamento giurisprudenziale prevalente è, comunque, nel senso di ravvisarlo non in qualsiasi azione fastidiosa,ma soltanto allorquando si realizzi una sensibile alterazione della normale condizione di quiete. Non è necessario, peraltro, che il disturbo sia arrecato a un elevato numero di persone, ma semplicemente a un numero indeterminato di esse. Sul punto la casistica giurisprudenziale è assai varia e secondo alcune pronunce per la configurabilità del reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone non è necessario che in concreto si siano lamentate più persone, atteso che è sufficiente che i rumori abbiano determinato una situazione tale, dal punto di vista oggettivo, da poter recare disturbo a una pluralità di soggetti. I giudici che si sono pronunciati sull’argomento hanno sempre escluso il reato se l’interessato dall’immissione era un solo soggetto ritenendo che, per la sussistenza della fattispecie criminosa, fosse necessario provare che l’attività rumorosa avesse la capacità di ledere il bene protetto costituito dalla tutela delle occupazioni e del riposo di un numero indeterminato di persone. Secondo un orientamento più recente a fare scattare la responsabilità del proprietario dell’animale non è «l’effettivo raggiungimento di plurime persone», ma la “potenzialità diffusiva” dell’abbaiare dell’animale e, quindi, ciò che rileva penalmente è la potenzialità diffusiva della fonte stessa, che deve essere oggettivamente idonea al di là delle caratteristiche soggettive della fattispecie a disturbare le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero della generalità di soggetti che fossero attinti dai rumori.

Considerazioni conclusive

La mutata sensibilità nei confronti del mondo animale ha portato al riconoscimento di un diritto soggettivo alla convivenza con l’animale quale espressione del diritto di libertà del cittadino. La legge di riforma del condominio (legge n.220/2012) è espressione di questo cambiamento che ha portato a stabilire l’illegittimità delle clausole del regolamento di condominio che vietano di possedere o detenere animali domestici. Con l’ultimo comma dell’articolo 1138 del codice civile viene sancita l’impossibilità di apporre limitazioni, nei regolamenti condominiali, alla possibilità di ospitare animali domestici all’interno degli appartamenti.