La Corte Suprema di cassazione, seconda sezione penale, con la sentenza n. 40092 del 6 aprile/3 ottobre 2023, ha dichiarato inammissibile il ricorso avanzato da un amministratore di più condomìni in ordine alle condotte di truffa e appropriazione a lui contestate da diversi condòmini e proprietari esclusivi di unità abitative in condominio.
Nel caso in esame, la Corte di appello di Brescia confermava la sentenza con la quale il Tribunale di Mantova condannava l’amministratore di più condomìni per il delitto di appropriazione indebita previsto e punito dall’art. 646 c.p., mentre dichiarava estinte per intervenuta prescrizione talune condotte di truffa a lui contestate ai sensi dell’art. 640 c.p.
I giudici di merito accertavano che l’amministratore, durante l’espletamento del suo incarico, aveva posto in essere delle condotte di truffa, redigendo falsi verbali di assemblea straordinaria avente ad oggetto il conferimento dell’autorizzazione ad accedere a rapporti di conto corrente bancario e finanziamenti, così da ingannare l’istituto di credito in ordine alla volontà del condominio di assumere obbligazioni connesse alla stipula del contratto.
Inoltre, la Corte d’appello ravvisava nelle condotte dell’amministratore di condominio anche l’integrazione del delitto di appropriazione indebita, atteso che il finanziamento veniva accordato dall’istituto di credito per l’esecuzione di lavori di ristrutturazione e rifacimento degli immobili danneggiati da un evento sismico, mentre le relative risorse, mediante operazioni di prelievo in conto corrente, venivano impiegate anche per il pagamento dei compensi dell’amministratore.
L’amministratore di condominio proponeva ricorso per cassazione, con il quale deduceva la manifesta illogicità ed il vizio di motivazione della pronuncia di condanna resa dalla Corte d’appello, nella parte in cui ravvisava la sussistenza dell’elemento oggettivo e soggettivo dei reati di truffa ed appropriazione indebita.
Inoltre, l’amministratore lamentava l’indeterminatezza di taluni capi di imputazione, in ordine ai quali erano state cumulativamente e genericamente contestate le fattispecie incriminatrici di cui agli artt. 640 e 646 c.c.
In particolare, il ricorrente riteneva che nel caso di specie difettasse qualsiasi elemento dal quale potersi desumere che il verbale mostrato ai condomini in sede dibattimentale fosse stato utilizzato dall’amministratore per chiedere alla banca un finanziamento non dovuto, così come non potrebbe riconoscersi un ingiusto profitto nella erogazione di un mutuo a favore di terzi.
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, perché basato su motivi manifestamente infondati o comunque non consentiti, in quanto con essi il ricorrente prospettava una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, valutazione riservata in via esclusiva al giudice di merito e non consentita in sede di legittimità.
La pronuncia in commento si occupa del tema dell’appropriazione indebita posta in essere dall’amministratore di condominio a seguito di artifici e raggiri.
La questione offre l’occasione per una breve disamina in ordine ai delitti di truffa e appropriazione indebita commessi dall’amministratore di condominio, con particolare riferimento alla possibilità di configurare a suo carico il concorso tra i reati di cui agli artt. 640 e 646 c.p. nelle ipotesi l’amministratore si appropria indebitamente della cosa di cui assume, mediante raggiri e artifici, il possesso.
La truffa dell’amministratore di condominio
Il reato di truffa è disciplinato dall’art. 640 c.p. e punisce chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno.
La norma in esame è sistematicamente collocata nella parte del codice penale dedicata ai delitti contro il patrimonio mediante frode.
La dottrina formatasi intorno al bene giuridico tutelato dal delitto di truffa non è stata sempre univoca.
Una prima ricostruzione, ormai risalente, riteneva che il bene giuridico protetto dall’art. 640 c.p. fosse rappresentato dall’interesse pubblico alla inviolabilità del patrimonio contro le condotte fraudolente altrui.
Al contrario, l’orientamento attualmente prevalente in dottrina ritiene che l’art. 640 c.p. delinea un delitto plurioffensivo, posto non solo a tutela del patrimonio ma anche della libertà di autodeterminazione.
Sul piano strutturale il delitto di truffa configura un reato a forma vincolata, perché connotato da caratterizzazioni modali della condotta tipica, consistenti negli artifici o nei raggiri posti in essere dall’agente per indurre in errore il soggetto passivo del reato, portandolo a compiere un atto di disposizione patrimoniale.
Con il termine artificio si fa riferimento ad un’attività atta a simulare circostanze inesistenti, come uno stato di ricchezza o la sussistenza di determinati titoli o qualità in capo al soggetto attivo del reato, volta a determinare una trasfigurazione della realtà esterna, camuffandola.
Diversamente, con il termine raggiro si fa riferimento all’assunzione di un contegno subdolo ed ingegnoso di parole destinate a convincere, orientando in modo fuorviante le rappresentazioni e decisioni altrui.
L’induzione in errore mediante artifici e raggiri costituisce il passaggio intermedio che nell’ambito dell’art. 640 c.p. consente di realizzare l’evento finale del delitto di truffa, consistente nel conseguimento di un ingiusto profitto con altrui danno.
Per errore si intende una falsa rappresentazione della realtà, un convincimento attuale difforme a verità che va distinto dall’ignoranza, ossia dalla assoluta cognizione della realtà, che preclude di per sé sola la presenza dell’errore e del quid pluris che lo caratterizza. Ciò consente di escludere la configurabilità del reato di truffa nel caso di mero sfruttamento dell’errore altrui preesistente, perché in tal caso manca il ricorso ad artifici e raggiri per integrare, mantenere o rinsaldare l’errore altrui e, dunque, l’art. 640 c.p. non può ritenersi integrato, in quanto la falsa rappresentazione della realtà è generata da fattori estranei alla condotta dell’agente.
In sintesi, il delitto di truffa si considera consumato quando la condotta del soggetto attivo del reato si sostanzia in artifici e raggiri idonei a generare una falsa rappresentazione della realtà, atta a condurre la vittima del reato al compimento di un atto di disposizione patrimoniale per far conseguire, al reo o ad un terzo, un ingiusto profitto con altrui danno.
In applicazione di questi principi la Suprema Corte ha affermato che integra il reato di truffa la condotta con cui l’amministratore di condominio, per ottenere la disponibilità di un fido bancario, esibisce un verbale di assemblea condominiale recante le firme false del presidente e del segretario, in quanto detto comportamento risulta connotato da artifici e raggiri che generano una falsa rappresentazione della realtà e consentono all’amministratore di incassare la somma di denaro, determinando a carico dell’amministrazione condominiale un danno ingiusto da esposizione debitoria nei confronti dell’istituto bancario, destinatario della condotta fraudolenta.
L’appropriazione indebita dell’amministratore di condominio
L’art. 646 c.p. punisce chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria del denaro o della cosa mobile altrui di cui ha, a qualsiasi titolo, il possesso.
La norma in esame è sistematicamente collocata nella parte del codice penale dedicata ai delitti contro il patrimonio mediante frode.
La dottrina formatasi intorno al bene giuridico tutelato dal delitto di appropriazione indebita non è univoca.
Una prima ricostruzione ritiene che il bene giuridico protetto dall’art. 646 c.p. sia rappresentato dal diritto di proprietà.
Un diverso orientamento, invece, sostiene che l’art. 646 c.p. tuteli l’interesse al mantenimento del vincolo di destinazione inizialmente impresso alla cosa.
Sul piano strutturale il delitto di appropriazione indebita delinea un reato a forma libera, perché l’art. 646 c.p. richiede unicamente che il soggetto attivo del reato abbia a qualsiasi titolo il possesso del denaro o della cosa mobile altrui, senza individuare particolari connotazioni modali della condotta tipica di appropriazione.
Nel diritto penale si discute se la nozione di possesso vada mutuata dalla disciplina civilistica o se, invece, possa essere elaborata un’autonoma nozione penale di possesso.
Al riguardo, l’orientamento attualmente prevalente in dottrina e giurisprudenza riconduce il concetto di possesso di cui all’art. 646 c.p. l’esercizio autonomo di un potere di fatto sulla cosa, che comporta la facoltà di servirsi della cosa medesima al di fuori della sfera di custodia e di vigilanza del titolare. Ne consegue che la configurabilità del delitto di appropriazione indebita presuppone che il soggetto agente abbia la disponibilità della res, ossia la possibilità di disporne in qualsiasi momento.
In tal modo viene accolta una nozione ampia ed autonoma del concetto di possesso in materia penale, che non si esaurisce nel “potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale” (art. 1140, comma 1, c.c.), ma ricomprende anche i diritti personali di godimento e talune ipotesi di detenzione, a condizione che il potere di fatto sulla cosa sia accompagnato dall’animus rem sibi habendi, ossia dalla consapevolezza di tenere la cosa presso di sé.
In altri termini, per aversi appropriazione indebita è necessaria la cosiddetta interversione del possesso, richiedendosi che l’agente si comporti nei confronti del denaro o della cosa mobile altrui uti dominus, cioè come se ne fosse il proprietario, travalicando le facoltà di disposizione del bene a lui consentite dal titolo in base al quale possiede.
Il momento determinativo dell’interversio possessionis individua il momento consumativo del delitto di appropriazione indebita.
In materia, un primo orientamento qualifica il delitto di appropriazione indebita come reato di mera condotta a consumazione istantanea, per cui ravvisa l’interversione del possesso e l’integrazione dell’art. 646 c.p. nel momento in cui l’amministratore compie un atto di dominio sulla cosa comune, manifestando la volontà di trattenerla uti dominus.
In applicazione di questa ricostruzione la giurisprudenza ritiene consumato il delitto di appropriazione indebita quando l’amministratore di condominio omette di restituire la contabilità detenuta al momento della cessazione dell’incarico, ovvero quando si rifiuta di trasferire le giacenze di cassa al nuovo amministratore.
Una diversa impostazione formatasi nella giurisprudenza di legittimità, invece, afferma che il delitto di appropriazione indebita di somme di denaro relative al condominio da parte di colui che esercitava le funzioni di amministratore si consuma all’atto della cessazione della carica, in quanto solo in tale momento, in mancanza di restituzione delle somme ricevute nel corso della gestione, si verifica con certezza l’interversione del possesso.
Il concorso tra i reati di truffa e appropriazione indebita
La condotta con cui l’amministratore di condominio redige un falso verbale di assemblea, avente ad oggetto il conferimento di un’autorizzazione ad accedere a rapporti di conto corrente bancario e finanziamenti, è idonea a configurare una ipotesi di truffa a danno dell’istituto di credito.
Inoltre, nei casi in cui la somma di denaro così pattuita sia attribuita all’amministratore di condominio per l’esecuzione di lavori di ristrutturazione e rifacimento del complesso edilizio, ma l’amministratore la utilizza per scopi diversi, come il pagamento dei compensi a lui spettanti, è astrattamente configurabile anche il delitto di appropriazione indebita.
In queste ipotesi, dunque, si potrebbe delineare a carico dell’amministratore di condominio un concorso tra il reato di truffa e il delitto di appropriazione indebita, perché le due fattispecie incriminatrici, anche se poste a tutela del medesimo bene giuridico, presentano elementi strutturali diversi.
Infatti, parte della dottrina individua la differenza tra l’appropriazione indebita e la truffa nella preesistenza o meno del possesso della res in capo al soggetto attivo, precisando che mentre nella truffa l’agente induce altri in errore per ottenere il possesso di un bene; nell’appropriazione indebita l’agente si avvale del possesso o della disponibilità del bene ottenuto lecitamente per impadronirsene “contro i patti” che la consegna del bene comportava. Ne consegue che quando ricorrono tutti gli elementi innanzi descritti è configurabile un concorso tra i reati di truffa e appropriazione indebita a carico dell’amministratore di condominio.
Una diversa ricostruzione dottrinale, invece, individua la differenza tra la truffa e l’appropriazione indebita applicando un criterio basato sullo scopo perseguito dall’agente, ritenendo che quando il reo cerca di sottrarre fraudolentemente la cosa, mediante la menzogna o il raggiro, si configura un’appropriazione indebita, perché sebbene gli atti posti in essere siano astrattamente qualificabili come truffa, se intesi a conseguire un vantaggio patrimoniale, mediante l’induzione in errore, integrano concretamente un’ipotesi di appropriazione indebita.
D’altra parte, la Cassazione individua la differenza tra gli artt. 640 e 646 c.p. prediligendo l’applicazione di un criterio di tipo cronologico, ritenendo che per la sussistenza del delitto di appropriazione indebita è indispensabile che l’agente abbia a qualsiasi titolo il possesso o la detenzione della cosa altrui e che, quindi, volontariamente dia luogo all’interversione del titolo a proprio esclusivo o altrui profitto, senza dover ricorrere all’inganno.
In applicazione del richiamato principio cronologico la giurisprudenza più recente afferma che si configura il delitto di truffa e non quello di appropriazione indebita quando gli artifici o i raggiri sono indispensabili per venire illecitamente in possesso del denaro sottratto
Pertanto, la condotta con cui l’amministratore di condominio, durante l’espletamento del suo incarico, redige un falso verbale di assemblea straordinaria per ottenere da un istituto di credito somme di denaro da destinare anche al pagamento dei suoi compensi, non è idonea a configurare né un’ipotesi di concorso tra i reati di cui artt. 640 e 646 c.p. né il delitto di appropriazione indebita, ma integra solo il reato di truffa.